IMMUNITÀ NATURALE DA COVID-19:

REVISIONE DI LETTERATURA

4164 adesioni

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Siamo un gruppo di medici e odontoiatri che hanno eseguito una revisione di letteratura sul tema “immunità naturale da Covid-19”.

Le ricerche sull’immunità naturale alla malattia si suddividono in diversi ambiti:

  • la durata e la tipologia dell’immunità, sia anticorpale che cellulare;
  • la percentuale di recidive;
  • il confronto tra popolazioni vaccinate e non, sia rispetto all’immunità che alla probabilità di recidive;
  • gli eventuali rischi nel vaccinare i guariti e i risultati della vaccinazione nei guariti;
  • Omicron.

Abbiamo provveduto a studiare tutti questi ambiti, raccogliendo ed esaminando 228 articoli scientifici.

Abbiamo organizzato i risultati secondo questi temi ed effettuato così un riassunto di ciò che emerge dalla letteratura.

Abbiamo poi predisposto una lettera da inviare alle autorità competenti, ovvero il Ministero della Salute, del Lavoro, la Corte Costituzionale, i Parlamentari medici, i Presidenti dei gruppi parlamentari, i Presidenti regionali, l’ENPAM, la FNOMCEO, gli Ordini Provinciali dei Medici, le federazioni degli Ordini delle Professioni sanitarie.

Lo scopo è sensibilizzare sul tema dell’immunità naturale, per riconoscerne la validità e poter effettuare così un rapporto benefici-rischi razionale e suffragato dalla letteratura.

Per questo accogliamo le adesioni di medici, odontoiatri, sanitari iscritti a un ordine (come ad esempio psicologi, infermieri, fisioterapisti, ostetriche, e così via) ricercatori, professori, scienziati.

  1. L’obiettivo della ricerca sulla durata e sulla tipologia dell’immunità da pregressa infezione da SARS-CoV-2 è stato il verificare la presenza di una memoria immunologica capace di proteggere gli individui dalla reinfezione da SARS CoV-2 per un periodo superiore ai 6 mesi. La ricerca ha valutato la presenza di IgG specifiche per SARS-CoV-2 (anticorpi neutralizzanti), anticorpi IgA, cellule memoria CD4+, CD8+ e cellule B della memoria.

    Il SARS-CoV-2 presenta 4 proteine strutturali: spike (S) protein, membrane (M) protein, envelope (E) protein, e la nucleocapsid (N) protein. La letteratura enfatizza soprattutto il ruolo delle proteine S ed N come le più immunogene. Soprattutto la proteina S sembra essere la più protettiva. Essa stimola nello specifico la formazione dell’anticorpo neutralizzante (nAbs) che ha un ruolo centrale nelle patogenicità e trasmissibilità del virus.

    Dalla letteratura si evince la presenza di una risposta immunitaria nella maggior parte dei soggetti in seguito ad esposizione a SARS-CoV-2, sia tra i soggetti vaccinati che non vaccinati. Si evidenzia la presenza di una risposta sia di tipo umorale che cellulare che, pur non essendo di eguale entità, è protettiva indipendentemente dalla sintomatologia manifestatasi nel corso della pregressa infezione, dal sesso e dall’età. Questa protezione ha una durata superiore a sei mesi, allo stato attuale delle evidenze.

    Fra gli studi più significativi riportiamo quello di David Alfegob et al. (2021). Gli autori hanno raccolto 39.086 specimens a livello nazionale (Americani) ed analizzato il loro tasso di sieropositività. Gli autori hanno dimostrato la presenza di IgG sia anti-S sia anti-N fino a 300 giorni post infezione. Si è registrata una sieropositività media rispetto all’N-protein del 68% dopo 293 giorni e una sieropositività degli anticorpi anti S-protein dell’87% a 300 giorni. Inoltre gli Autori hanno dimostrato che soggetti di età inferiore ai 65 anni presentassero una maggiore sieropositività anticorpale. Questo studio è stato eseguito grazie all’accesso ad uno dei più grandi laboratori diagnostici americani, che ha fornito un ampio database di dati longitudinali di pazienti guariti dal COVD-19, pertanto è molto rappresentativo.

    Il gruppo di Yang Yang et al. ha dimostrato, in una coorte di 214 pazienti guariti sintomatici (in forme da lievi a severe) da COVID, la presenza di anticorpi neutralizzanti per un periodo superiore a 480 giorni, e la presenza di anticorpi non rilevabili nei pazienti guariti asintomatici. Hanno inoltre constatato come l’immunità anticorpo-dipendente possa fornire protezione anche con le varianti in circolazione.

    A supporto di questi studi, ve ne sono altri come quello Valeria De Giorgi et al. (2021) che in un campione di 116 individui a distanza di 11 mesi hanno rilevato la presenza di anticorpi neutralizzanti e di IgG, a conferma della presenza di una memoria immunologica nei guariti.

    Ancora, nel lavoro di Jia Wei et al. pubblicato su Nature Communication nel 2021, gli Autori hanno analizzato un campione randomizzato di 7256 cittadini del Regno Unito con follow-up fino a 12 mesi. Hanno stimato una presenza di livelli anticorpali protettivi contro la SARS-CoV-2 di circa 1,5-2 anni, poiché hanno dimostrato la presenza di anticorpi anti-spike IgG con una vita media di circa 184 gg.

    Fra gli altri, riportiamo anche lo studio di Stine SF Nielsen et al. (2021), che dimostra in 203 pazienti guariti dal SARS-CoV-2, con malattia che andava dalla forma asintomatica alla severa, la presenza nel 99% dei casi di specifici anticorpi anti SARS-CoV-2, e nel 90% degli individui la presenza di linfociti T CD8+ HLA-A2+, diretti contro il virus. Altri studi, anche se su campioni più piccoli (si veda ad esempio Puya Dehgani-Mobaraki et al., 2021), hanno dimostrato la presenza di anti-SARS-CoV-2-S-RBD IgG a 14 mesi sui pazienti guariti.

    Riportiamo inoltre la metanalisi di Tawanda Chivese et al. (2022) che ha incluso 54 studi da 18 paesi per un totale di 12.011.447 individui con un follow-up a 8 mesi post-infezione che dimostra la presenza di IgG al 90.4%, di linfociti T CD4+ al 91.7% e di cellule B della memoria al 80.6%, con una prevalenza di reinfezione del 0.2%.

    In altri studi è stata evidenziata la formazione e persistenza di cellule B della memoria e plasmacellule intramidollari anti SARS-CoV-2 in pazienti convalescenti che rimangono stabili per oltre 8 mesi dalla guarigione e che possano pertanto indurre ad una protezione immunitaria umorale nel tempo (si veda ad esempio Gaebler et al., 2021).

    Si è visto anche come vi siano delle mutazioni da parte del compartimento delle cellule B della memoria, che continuano a evolvere nei 12 mesi post-infezione, come dimostra il lavoro del 2021 pubblicato su Nature da Zijun Wang et al. Inoltre, le medesime mutazioni sostengono una protezione duratura da parte delle cellule della memoria, mantenendo dei centri germinali sempre attivi. La presenza di antigeni persistenti è dimostrata anche in altre sedi, come l’intestino (Gaebler et al., 2021). Viene così favorita un’evoluzione costante degli anticorpi nei centri germinali, che si mantiene nel tempo e che rafforza la memoria immunitaria.

    Recenti studi hanno inoltre documentato la presenza di IgA nella superficie della mucosa nasofarinegea che sembrano avere la capacità di neutralizzare l’infezione nelle vie aeree superiori per diversi mesi (Sterlin et al., 2021; Wang et al., 2021).

    Un recentissimo studio svedese retrospettivo, fondamentale perché ha analizzato tutta la popolazione svedese, ha dimostrato la presenza di immunità naturale anticorpale e cellulare in grado di proteggere dal ricovero dopo circa 20 mesi (Nordström et al, 2022). La vaccinazione sembrava ridurre il rischio di contrarre il Covid e dell’ospedalizzazione fino a 9 mesi, sebbene le differenze nei numeri assoluti, specialmente nei ricoveri, fossero piccole. La vaccinazione post-guarigione secondo lo studio consente solo un caso di reinfezione in meno ogni 767 cicli primari (a due dosi) somministrati. Gli autori concludono auspicando che l’immunità conferita da una precedente infezione venga riconosciuta a livello legislativo, anche in considerazione delle nuove varianti sempre meno sensibili ai vaccini.

    Quindi, dalla letteratura si evince che:

    • la stragrande maggioranza degli individui affetti da SARS-CoV-2 sviluppa con la guarigione un’immunità naturale sia cellulo-mediata che umorale efficace nel tempo, con una persistenza molto maggiore di 8 mesi, in grado di fornire una protezione sia nei confronti della reinfezione che di un’eventuale malattia grave.
    • L’immunità naturale persiste per un periodo di tempo molto ampio. Gli anticorpi protettivi e le cellule B della memoria sono stati riscontrati in molti follow-up da 12 mesi a 20 mesi dopo la guarigione, ma dagli articoli si evince che possono prolungarsi nel tempo. Questo avviene sia a causa della numerosità degli anticorpi, che grazie alla presenza di cellule B della memoria in molteplici loci (ad esempio nel midollo osseo e nell’intestino) che sono in continua evoluzione, a favore di una memoria immunologica ancora più duratura nel tempo.
    • La riposta immunitaria porta alla produzione di IgG specifiche per l’infezione. È dimostrata la presenza di anticorpi anti-S ed anti-N altamente immunogeni che sono misurabili a 18 mesi, e stimabili a 24 mesi. È dimostrata anche la presenza di un alto numero di IgA, che forniscono una protezione delle mucose.
    • Dalla letteratura si evince anche la continua evoluzione delle cellule B della memoria, all’interno di centri germinativi che rimangono attivi anche a distanza di tempo. Questo migliora e può allungare molto la memoria immunitaria legata ai linfociti B.

    Pertanto, la memoria immunitaria specifica per il SARS-CoV-2 in risposta all’infezione nei guariti persiste nella maggior parte dei pazienti fino a un anno e mezzo o due anni dopo l’infezione. Questo dato è promettente per la prevenzione sia da reinfezione sia da quadri clinici severi.

  1. Oltre all’immunità anticorpale è fondamentale l’immunità cellulare. L’organismo infatti lascia decadere nel tempo gli anticorpi circolanti e mantiene l’immunità cellulare attiva, con cui produrre anticorpi in caso di necessità. La presenza di anticorpi neutralizzanti è stata identificata come potenziale correlato di protezione, tralasciando in un primo momento il ruolo della risposta cellulare alla vaccinazione e alla infezione naturale, specialmente nella valutazione a lungo termine (Sui Y., et al). Come da nozioni di immunologia di base, la risposta immunocellulare alle infezioni virali gioca un ruolo cruciale per limitare la progressione clinica e la protezione contro successive infezioni (Greenbaum et al., 2009; Sridhar et al., 2013; Wilkinson et al, 2012), ed è quindi stata verificata anche per il SARS-CoV2, tanto da essere presa in considerazione come potenziale correlato di immunoprotezione.

    Si può generalmente affermare che, come molte altre infezioni virali, l'infezione da SARS-CoV2 può essere controllata in modo efficiente nella maggior parte degli individui infetti attraverso l'attivazione coordinata dei componenti innati e adattivi del sistema immune. Durante le ondate epidemiche precedenti a Omicron, nei casi gravi è stata riscontrata la compromissione della funzione dell’IFN-α, mediata dall'aumento della produzione di autoanticorpi diretti proprio contro l’IFN-α (Bastard, 2020). Al contrario, gli individui in grado di controllare l'infezione senza sintomi gravi sono stati in grado di sviluppare rapidamente sia una risposta anticorpale che linfocitaria T virus-specifiche, come studiato e riportato da Lucas et al. in Nature Medicine (2021) e, tra gli altri, da Tan in Cell Reports (Tan et al., 2021; Rydyznski Moderbacher et al., 2020; Schulien et al., 2020).

    La durata del follow-up relativamente alla notifica dei primi casi di infezione da SARS-CoV-2 va sempre più allungandosi: è stata confermata nel tempo la presenza di linfociti T CD4+ e CD8+ nei soggetti convalescenti da SARS-CoV-2 fino a 18 mesi dopo l’infezione, come riportato tra gli altri nella recente pubblicazione del gruppo di Ya (Li-na et al., 2022; JM Dan et al., 2021; - Zuo et al., 2021 - Breton et al., 2021), e indipendentemente dalla gravità del quadro clinico relativo all’infezione stessa (Le Bert et al., 2021 - Rodda et al., 2021). Ancora, lo studio di coorte svedese già citato in precedenza, non ha evidenziato differenze statisticamente significative tra l’efficacia della risposta immune all’infezione naturale o a quella ibrida (vaccinazione + infezione naturale) dopo circa 20 mesi, sottolineando la valida protezione antivirale messa in atto dal nostro sistema immunitario nel tempo (Nordström et al, 2022).

    Il complesso delle cellule T CD8+ della memoria circolante comprende cellule con un fenotipo di memoria simile a quello delle cellule staminali, con polifunzionalità sostenuta e capacità di proliferazione, quindi è probabile che queste stesse cellule svolgano un ruolo cruciale nel sostenere una risposta anamnestica (Jung et al., 2021). Nel loro studio, Bonifacius et al. (2021) hanno inoltre osservato che nel tempo il titolo anticorpale diminuisce più rapidamente rispetto alle concentrazioni dei linfociti T, ed inoltre non è associato alla scomparsa dei linfociti B specifici per SARS-CoV-2 (Gaebler et al., 2021; Turner et al., 2021). Infatti è interessante notare che le cellule B Spike-specifiche sono state rilevate per periodi di tempo più lunghi anche in pazienti anziani con livelli di anticorpi neutralizzanti in rapido declino (Jeffery-Smith et al., 2021).

    È importante sottolineare il valore del mantenimento di una risposta immune nel tempo, ancor più quando associata all’efficacia verso diverse varianti, fino ad Omicron, che, come dimostrato, mostra una importante attività di immunoevasione rispetto ai vaccini attualmente disponibili (ECDC 18th Risk assessment, 2022). Varie evidenze a riguardo sono state riportate, incluso il recente studio italiano di Mazzoni pubblicato su Frontiers in Immunology, suggerendo che le cellule T hanno come target diverse regioni della Spike, tra cui quelle che non vengono coinvolte da mutazioni maggiori. Mutazioni che invece possono diminuire l’azione neutralizzante degli anticorpi in risposta alla vaccinazione (Mazzoni et al., 2022; Braun et al., 2020).

    La conservazione dell’immunità mediata da linfociti T CD4+ contro SARS-CoV-2 è fondamentale per ridurre la gravità della malattia, come dimostrato dall'importanza di una risposta rapida dei linfociti T nella prevenzione del COVID grave (Antony et al., 2021 - Tarke et al., 2021 - Ferretti et al., 2020; Nelde et al., 2021)

    In generale, la valutazione della risposta immunitaria è stata prevalentemente focalizzata sulle cellule circolanti. Recentemente, su Science Immunology, lo studio del gruppo di Pool, ha evidenziato il ruolo attivo e cruciale di popolazioni cellulari presenti in alcuni organi e tessuti, quali polmoni e linfonodi, nel coordinare la persistenza della memoria immune tra il compartimento cellulare e quello umorale contro il SARS-CoV-2 con protezione sito-specifica preventiva di future infezioni (Pool et al., 2021). Per quanto la capacità di difendersi dalle infezioni in maniera efficace dipenda da molteplici fattori, tra cui sono da annoverare particolari tratti genetici, la risposta cellulare è un presidio imprescindibile dell’organismo per confrontarsi con i patogeni esterni. È stata ipotizzata anche per il SARS-CoV-2 la possibilità di una precocissima ed efficace attivazione dell’immunità cellulare associata ad una completa risoluzione dell’infezione talmente precoce da non elicitare alcuna risposta sierologica misurabile (Swadling et al., 2021).

    Dalla revisione di letteratura si evince quindi che, come già noto da nozioni immunologiche di base, la risposta cellulare si attivi e permanga anche quando quella anticorpale non è più dosabile.

  1. Oltre all’immunità naturale che fa seguito all’infezione primaria e protegge da eventuali recidive, esiste anche il fenomeno della cross-reattività. La cross-reattività si verifica quando il sistema immunitario identifica come simili le proteine presenti in due sostanze diverse, e reagisce contro entrambe.

    In questo ambito, si parla di cross-reattività per indicare le reazioni del sistema immunitario a epitopi virali simili anche in virus diversi.

    Il fenomeno della cross-reattività dell’immunità a cellule T era già noto in passato per altre infezioni acute (Welsh, Selin, 2002). Riguardo all’influenza H1N1, è stata dimostrata cross-reattività da parte di chi aveva già contratto il virus di origine suina (Greenbaum et al, 2009). Allo stesso tempo, linfociti T CD8+ neutralizzanti sono stati riscontrati in pazienti che avevano avuto l’H1N1 e che erano risultati protetti da successivi episodi influenzali sintomatici (Sridhar et al., 2013). Un altro studio ha riscontrato linfociti T CD4+ derivanti da virus influenzali precedenti in grado di mitigare successive infezioni (Wilkinson et al., 2012). Invece, i vaccini contro l’influenza non hanno consentito di sviluppare cross-reattività nei confronti del virus H1N1 (CDC, 2009). Si tratta quindi di un fenomeno esclusivo dell’immunità naturale. Questo è stato addirittura riscontrato nei sopravvissuti alla spagnola, che 90 anni dopo avevano ancora cellule B circolanti in grado di produrre anticorpi. In questo caso, la cross-reattività è stata dimostrata nei confronti di agglutinine virali dell’influenza suina del 1930 (Yu et al., 2008).

  2. È stata studiata già nel 2020 la reattività dei linfociti T contro il SARS-CoV-2, che risultava presente nel 20-50% delle persone senza esposizione nota al virus (Doshi, 2020, Mateus et al., 2020). Un altro studio rilevava cellule T CD4+ reattive al SARS-CoV-2 nel 40%-60% degli individui non esposti al virus, suggerendo il riconoscimento delle cellule T cross-reattive tra i coronavirus circolanti del raffreddore e il SARS-CoV-2 (Grifoni et al., 2020). È stata dimostrata cross-reattività anche in seguito a precedenti infezioni da beta-coronavirus (Le Bert et al., 2020).

    L’immunità cellulare dei linfociti T a partire da altri coronavirus è stata studiata da diversi gruppi di ricerca (si vedano ad esempio Braun et al., 2020, Le Bert et al., 2020, Lineburg et al., 2021, Swadling et al., 2021, Weiskopf et al., 2020).

    È stata anche riscontrata cross-reattività dei linfociti T anche a partire dal citomegalovirus (CMV) e da virus influenzali (Mahajan et al., 2021)

    Pare che la cross-reattività sia un fenomeno equamente distribuito tra i diversi generi ed età, e che sia protettivo a livello clinico nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2 (Madjoubi et al., 2021). Questo era già stato ipotizzato nel 2020, quando era chiaro che sarebbero stati necessari più indagini in merito (Sette et al., 2020). Da questo punto di vista, un importante studio (Abela et al., 2021) ha dimostrato che l’attività immunitaria stimolata da altri coronavirus (HCoV) è associata a risposte SARS-CoV-2 elevate, indicando una stimolazione incrociata. Soprattutto, l’immunità da HCoV può influire sulla gravità della malattia, poiché i pazienti con un'elevata reattività HCoV avevano meno probabilità di richiedere il ricovero in ospedale.

    Non solo l’immunità cellulare dei linfociti T, ma anche l’immunità anticorpale derivante dalle cellule B è stata dimostrata tra diversi coronavirus e il SARS-CoV-2 (Ng et al., 2020). Sono stati riscontrati anticorpi cross-reattivi sia di tipo IgG che IgA (Ortega et al., 2021).

  1. La durata della protezione immunitaria post-vaccinale è un quesito importante. L'immunità contro la variante Delta di SARS-CoV-2 diminuisce in tutti i gruppi di età pochi mesi dopo il ricevimento della seconda dose di vaccino: circa 2/3 dei casi di Covid-19 grave in Israele durante il periodo di studio si sono verificati in persone che avevano ricevuto due dosi del vaccino Pfizer (Goldberg et al., 2021). Inoltre per alcune fasce d’età le evidenze sono scarsissime: ad esempio le prove della protezione a lungo termine dei vaccini nelle persone di età inferiore ai 16 anni contro le molteplici varianti di COVID-19 sono limitate (Sharif et al., 2021).

    Riguardo l’efficacia, la letteratura riporta l’esistenza di una certa percentuale di pazienti che non risponde al vaccino; questa mancanza di protezione vaccinale si riscontra in circa l'8% delle persone vaccinate (De La Monte et al.,2021). Chiaramente non è noto in che percentuale di guariti potrebbe non esserci alcun beneficio in termini di ulteriore protezione.

    Talune evidenze rassicuranti esistono: in seguito a vaccinazione l’efficacia contro l’infezione raggiunge il picco nel primo mese dalla seconda dose per poi diminuire gradualmente e raggiungere circa il 20% nei mesi dal 5 al 7 dopo la seconda dose; ma la protezione contro il ricovero e la morte persiste ad un livello solido per 6 mesi dopo la seconda dose (Chemaitelly et al., 2021).

    Il calo dell'efficacia del vaccino risulta essere maggiore nelle persone che più vorremmo proteggere, ovvero coloro di età pari o superiore a 65 anni (Andrews et al., 2022). I titoli anticorpali decadono relativamente rapidamente dopo la somministrazione di due dosi di vaccino. Tali diminuzioni sono più rapide delle riduzioni della protezione (Andrews et al., 2022).

    Un importante e recente studio pubblicato su Lancet riporta che l’efficacia contro l’infezione Covid sintomatica tra 842.974 individui vaccinati decade rapidamente e si annulla completamente dopo circa 6-7 mesi, fino a divenire addirittura negativa per intervalli di tempo superiori (Nordström et al. 2022).

    Ci sono diversi motivi per cui l'efficacia vaccinale è così breve. Uno di questi è la generazione di varianti prodotte dalla pressione selettiva esercitata dal vaccino sul virus (Read et al, 2015; Gandon et al, 2001). L'altro è il fatto che i vaccini inducono la risposta immunitaria solo contro la proteina Spike, che è quella che muta più spesso.

    Forzare la vaccinazione nei soggetti guariti allo scopo di non diffondere il contagio non ha significato epidemiologico (Seneff et al., 2022), come ormai ampiamente dimostrato. Ulteriore prova di questo sono i dati Europei raccolti: in Germania il tasso di casi sintomatici di COVID-19 tra i pazienti completamente vaccinati è riportato settimanalmente dal 21 luglio 2021. Questa percentuale sta aumentando di settimana in settimana ed era del 58,9% il 27 ottobre 2021, fornendo una chiara evidenza della crescente rilevanza dei vaccinati come possibile fonte di trasmissione. Situazione simile è stata descritta nel Regno Unito dove su un totale di 100.000 casi l’89,7% dei casi si sono verificati tra i completamente vaccinati. Infatti sono numerosissimi, ed ormai evidenti a chiunque, i dati secondo i quali le persone completamente vaccinate diffondono il SARS-CoV-2 (Riemersma et al., 2021) con cariche virali simili agli individui non vaccinati, e con relativa necessità di ulteriori controlli della diffusione del contagio in entrambi i casi (Acharya et al., 2021; Servellita et al., 2022). Anche con la variante Delta sono riportate infezioni che si verificano dopo due vaccinazioni ed hanno avuto un picco di carica virale simile a quello degli individui non vaccinati (Pouwels et al., 2021).

    Non è perciò congruo ignorare la popolazione vaccinata come possibile e rilevante fonte di trasmissione quando si decide sulle misure di controllo della salute pubblica (Kampf et al., 2021). In conclusione, rispetto all’immunità naturale, l’immunità artificiale decade molto più rapidamente nel tempo.

  1. È fondamentale l’analisi della probabilità di recidive nei guariti, e delle manifestazioni cliniche delle stesse.

    Diversi studi attestano l’efficacia dell’immunità naturale nel prevenire recidive. Rispetto ai casi di infezione primaria, un soggetto guarito presenta probabilità di reinfettarsi molto inferiore. I fattori oggetto di studio, oltre alla probabilità di reinfezione, sono la durata dell’immunità, la severità della malattia in caso di recidiva (ospedalizzazioni e morti) e la concentrazione di anticorpi. I risultati sono inevitabilmente influenzati dalla numerosità del campione analizzato, dalla durata dello studio e dal metodo di analisi e raccolta di dati.

    Diversi studi attestano l’efficacia dell’immunità naturale nel prevenire recidive. Rispetto ai casi di infezione primaria, un soggetto guarito presenta probabilità di reinfettarsi molto inferiore. I fattori oggetto di studio, oltre alla probabilità di reinfezione, sono la durata dell’immunità, la severità della malattia in caso di recidiva (ospedalizzazioni e morti) e la concentrazione di anticorpi. I risultati sono inevitabilmente influenzati dalla numerosità del campione analizzato, dalla durata dello studio e dal metodo di analisi e raccolta di dati.

    Grazie ad una revisione sistematica (Murchu et al., 2021) che ha raccolto e analizzato di 11 studi di coorte pubblicati nel corso del 2020 e 2021 con un follow-up superiore ai 10 mesi e numero totale di pazienti analizzati pari a 615.777, è possibile confrontare le diverse esperienze e giungere alle seguenti conclusioni:

    • la reinfezione è un evento relativamente raro (probabilità di reinfezione compresa tra 0% e 1,1%)
    • nessuno studio riporta un aumento del rischio di recidiva con il passare del tempo.

    Diversamente, la protezione al contagio fornita dalle vaccinazioni è sia inferiore che meno duratura di quella naturale (Poukka et al., 2021).

    In conclusione gli autori evidenziano che l’immunità naturale non svanisce almeno nei 10 mesi successivi all’infezione primaria; a conferma Sheehan et al. (2021) hanno dimostrato che, nei 90 giorni successivi all’infezione primaria, l’immunità tende a crescere; evento che suggerisce come l’immunità naturale possa resistere molto a lungo.

    Esperienze analoghe hanno confermato tassi di recidiva pari circa allo 0,3% (Vitale et al.,2021, Flacco et al., 2021) e all’1% (Leidi et al.,2022).

    Uno studio condotto su operatori sanitari a Sergipe, in Brasile, ha indicato un tasso relativamente alto di reinfezione correlato con le risposte anticorpali più basse, ma nella maggior parte dei casi i ricercatori non sono stati in grado di confermare la reinfezione de-novo. Da quello studio, che coinvolgeva comunque solo 33 pazienti, i ricercatori hanno stimato che il rischio di reinfezione fosse di circa il 7% (Dos Santos et al., 2021).

    Letizia et al. (2021) hanno riscontrato un tasso di reinfezione significativamente maggiore rispetto ai succitati studi, ovvero pari al 10% dei casi in analisi; tuttavia è significativo evidenziare che, in caso di reinfezione, la carica virale è circa 10 volte inferiore a quella relativa ad un’infezione primaria. I partecipanti, 3076 soggetti (dei quali solamente 189 guariti) sono stati seguiti per un periodo di 6 settimane. Si evidenzia come il periodo di studio sia molto breve e che i soggetti guariti siano un numero esiguo; pertanto i risultati appaiono meno robusti rispetto agli studi precedenti. Inoltre è possibile che alcuni dei casi di nuova infezione rilevati siano in realtà falsi positivi dati dal riemergere dell’infezione primaria in quanto tracce di virus possono permanere all’interno dell’apparato digerente (Boyton et al., 2021).

    I principali aspetti e risultati degli studi oggetto di analisi sono schematizzati in tabella 1.

    L’immunità naturale potrebbe essere, tuttavia, meno robusta nei confronti di nuove varianti; a tal proposito si nota come nello stato di New York (NY Gov, 2022) il picco delle recidive sia successivo al diffondersi della variante Omicron.

    Alcuni studi hanno dimostrato come la presenza di un quantitativo elevato di anticorpi sviluppati in seguito all’infezione primaria sia garanzia di una maggiore copertura dal rischio di reinfezione (Letizia A.G. et al., 2021, Syed et al., 2022, Boyton et al., 2021). Alti livelli di anticorpi garantiscono, inoltre, minori tassi di ospedalizzazione (Mishra et al., 2021). Anche soggetti che hanno contratto l’infezione in forma asintomatica possono produrre alti quantitativi di anticorpi (Dwyer et al., 2021).

    Le evidenze riscontrate dalle ricerche ad oggi condotte (Abu-Raddad et al., 2021, Pilz et al., 2021), hanno dimostrato che la severità dei sintomi della reinfezione risulta nettamente inferiore rispetto all’infezione primaria, con un grado minore di ospedalizzazioni e quasi nessun decesso correlato. In provincia di Pescara 7173 soggetti precedentemente guariti dall’infezione hanno presentato 24 casi di reinfezione dei quali 4 hanno richiesto l’ospedalizzazione (0,06%) e un solo soggetto è deceduto (Flacco et al., 2021).

    Un recente studio, pubblicato su The Lancet (Crawford, 2022) analizza i casi pediatrici di recidiva e indica che il tasso di reinfezione più basso si riscontra in bambini di età inferiore ai 5 anni, ovvero in quella fascia d’età ove non è prevista vaccinazione. Il dato è confermato dall’assenza di casi di recidive in soggetti minori residenti in provincia di Pescara nel periodo marzo 2020-maggio 2021 (Flacco et al., 2021); si ricorda che la vaccinazione dei minori in Italia è iniziata a partire dal mese di giugno 2021 e pertanto nessuno dei minori considerati era vaccinato; questa è un’ipotesi di correlazione da confermare.

    Lo studio di Crawford è fondamentale perché è ha un tempo di follow-up molto lungo (515 giorni) e dimostra un rischio di reinfezioni molto basso, dallo 0,18% nei minori di 5 anni, fino allo 0,73% nei maggiori di 16 anni.

    Questi dati sono compatibili con ciò che riportano le raccolte e analisi dati dell'ISS.

  1. Complementare a questo argomento vi è l’area di studio che esplora i confronti tra i vaccinati e i non vaccinati nello sviluppo dell’immunità e quindi delle eventuali recidive. Diversi studi epidemiologici riportano una protezione dalle reinfezioni e dalla malattia grave nei soggetti con pregressa infezione da SARS-CoV-2. In particolare 2 revisioni sistematiche indipendenti sono state condotte sulla letteratura vigente, secondo le linee guida PRISMA, allo scopo di determinare l’effettiva protezione offerta dalla immunità naturale nella popolazione generale non vaccinata (Kojima et al., 2021) e nei confronti dei soggetti sottoposti a ciclo vaccinale completo (Shenai et al., 2021). Nella revisione effettuata dal gruppo di Kojima et al., la riduzione media ponderata del rischio di reinfezione è stata del 90,4% con una deviazione standard del 7,7%. La protezione contro le reinfezioni da SARS-CoV-2 è stata osservata per 10 mesi e risulta alta e simile a quella offerta dalla vaccinazione. Nella revisione del gruppo di Shenai et al. studi osservazionali e randomizzati controllati sono stati raccolti e valutati sia separatamente che non: tutti gli studi inclusi hanno riscontrato almeno un'equivalenza statistica tra la protezione offerta dalla vaccinazione completa e l'immunità naturale; soprattutto, tre studi hanno riscontrato la superiorità dell'immunità naturale. I nove studi clinici individuati riportano tassi di infezione in pazienti guariti dal COVID, naïve al COVID, vaccinati e non vaccinati; tre di questi sono studi randomizzati controllati sponsorizzati dalle singole industrie dei vaccini Pfizer, Moderna e J&J che riportano un gruppo relativamente piccolo dei guariti nell’analisi dei sottogruppi (3% - 0.15% della coorte complessiva). Quattro sono stati classificati come studi di coorte osservazionali retrospettivi, tra cui quello del gruppo di Shrestha et al. (2021), che ha esaminato l'incidenza cumulativa dell’infezione da SARS-CoV-2 in 52.238 dipendenti di un sistema sanitario americano. Tale incidenza è rimasta quasi zero tra i soggetti non vaccinati guariti, i soggetti precedentemente guariti vaccinati e i soggetti Covid-naïve vaccinati; inoltre non è stato riscontrato un beneficio statisticamente significativo per la vaccinazione negli individui guariti dal COVID. Tra gli studi inclusi nella revisione spicca lo studio di coorte osservazionale prospettica di Goldberg et al. (2021), che comprendeva 6,3 milioni di individui di età pari o superiore a 18 anni e utilizzava un modello dinamico con adeguamento per età, sesso, risultati al test PCR precedenti, e rischio comune. Tale studio ha riscontrato un'eccellente efficacia del vaccino nel gruppo Covid-naïve maggiore del 92%. Anche in questo studio la protezione nella coorte dei guariti non vaccinati è stata superiore con rispettivamente il 94,8%, il 94,1% e il 96,4% di protezione contro le infezioni, l’ospedalizzazione e la malattia grave. Il limite principale di tale studio è rappresentato dalla mancanza dell’analisi nel sottogruppo dei guariti vaccinati e dal breve periodo di osservazione (3 mesi).

    Anche nello studio di Gazit et al. (2022), il gruppo dei vaccinati COVID-naïve presenta un rischio di reinfezione che aumenta fino a 27,02 volte per le infezioni sintomatiche rispetto ai guariti non vaccinati. Gli studi riportati nella revisione presentano diversi limiti che ne riducono il contributo nel confronto di popolazione. Tra questi la problematica principale è da asserirsi nello screening tramite PCR test non sistematico, ma spesso effettuato solo sui sintomatici, con una possibile sottostima delle reinfezioni (bias). Solo uno studio accettava anche la positività al test sierologico come indice di pregressa infezione, altri non eseguivano lo screening prima della vaccinazione, altri studi presentano dimensioni relativamente ridotte, mancanza di aggiustamenti per i dati demografici di base, come nel caso dello studio di Satwik et al. (2021) che peraltro utilizza esclusivamente il vaccino ChAdOx1 Nov-19, differente rispetto a quello utilizzato negli altri studi. Alcuni sono stati condotti durante l’emergenza del ceppo Delta, che ha portato a un follow-up medio ridotto.

    Tuttavia, gli autori delle revisioni concludono che la pregressa infezione da SARS-CoV-2 garantiva maggiore protezione rispetto a quella offerta dal vaccino a dose singola o doppia. Concorde con tale conclusione è anche lo studio di Wadman et al. (2021) in Israele, quello di Sarraf et al. (2021), condotto in India nei confronti della variante Delta, quello del gruppo di Gallais et al (pre-print) con una riduzione relativa dell'incidenza della reinfezione da SARS-CoV-2 nel gruppo dei guariti del 96,7%. Lo studio di Leon et al analizza il tasso di incidenza di reinfezioni e ospedalizzazioni in California e New York durante il periodo tra Maggio e Novembre 2021. Da questa analisi sembra emergere che ad influenzare il tasso di incidenza sia principalmente la tempistica dell'ultimo evento di conferimento dell'immunità, ovvero il tempo trascorso dall’infezione e/o vaccinazione. L’ipotesi di un declino della protezione contro le infezioni da SARS-CoV-2 più rapido nei vaccinati Covid-Naïve rispetto ai guariti non vaccinati è stata verificata da più studi (Evans et al., 2022, Eyran et al., 2021). In quello del gruppo di Israel et al. nei soggetti vaccinati i titoli anticorpali all’inizio più alti sono diminuiti fino al 40% ogni mese successivo, mentre nei convalescenti la riduzione era del 5% circa al ​​mese. La vaccinazione mRNA BNT162b2 suscita infatti una forte risposta immunitaria sistemica aumentando drasticamente lo sviluppo di anticorpi neutralizzanti nel siero, ma non nella saliva, fallendo così nel limitare l'acquisizione del virus al suo ingresso (Azzi et al., 2021). La persistenza e la capacità neutralizzante degli anticorpi nei guariti con una protezione duratura è stata registrata in diversi studi longitudinali (12 mesi nello studio di Hwang et al. (2022); 13, 14, 18 mesi negli studi di Gallais et al. (2021), Eyran et al., 2021 e Puya-Dehgani-Morabaki et al., 2022) e ipotizzata piuttosto efficace anche contro le varianti (Cho et al., 2021, Lyski et al., 2022) testata in laboratorio con prove in vitro (Stamatos et al., 2021) raccolte in una revisione sistematica dal gruppo di Chen et al. (2022). Anche l’analisi delle diverse risposte umorali e cellulari è stata presa in considerazione: ad esempio nello studio del gruppo di Tarke et al. cellule T CD4+ e CD8+ specifiche per SARS-CoV-2 sono confrontate con i lignaggi B.1.1.7, B.1.351, P.1 e CAL.20C nei soggetti COVID-19 convalescenti e nei soggetti vaccinati con mRNA-1273 o BNT162b2. La reattività totale contro le varianti SARS-CoV-2 è simile in termini di grandezza e frequenza della risposta, con diminuzioni nell'intervallo 10-22% osservato in alcune combinazioni di test.

    Purtroppo tale studio non include le ultime 2 varianti Omicron (B1 e B2), tuttavia il gruppo di Keeton et al. (2022) ha evidenziato nel suo studio che nei pazienti ospedalizzati con infezione da Omicron c'erano risposte dei linfociti T paragonabili per proteina spike, nucleocapside e proteine ​​di membrana a quelle riscontrate nei pazienti ricoverati in ospedale nelle ondate precedenti dominate dalle varianti Beta o Delta. Pertanto, nonostante le estese mutazioni di Omicron e la ridotta suscettibilità agli anticorpi neutralizzanti, la maggior parte delle risposte dei linfociti T, indotte dalla vaccinazione o dall'infezione, riconoscono la variante attraverso una cross reattività.

    Negli individui Covid-Naïve la seconda dose di vaccino ha infatti aumentato la quantità e alterato le proprietà fenotipiche delle cellule T specifiche per SARS-CoV-2. Tuttavia, nei guariti vaccinati, le cellule T presentano caratteristiche fenotipiche differenti che suggeriscono una persistente e duratura localizzazione naso-faringea in grado di rispondere in modo robusto alle varianti virali emergenti (Niedelman et al., 2021). Dopo una singola iniezione di vaccino, il titolo mediano di anticorpi specifici negli individui con precedente malattia da Covid19 o infezione asintomatica è stato riscontrato molto al di sopra del titolo mediano nei soggetti Covid-naïve sottoposti ad un programma di vaccinazione completo (Sasikala et al., 2021; Callegaro et al., 2021; Anichini et al., 2021; Van Gils et al., 2021; Lozano-Rodriguez et al., 2022, Gobbi et al., 2021) eccetto che nello studio di Ebinger et al. (2021) in cui i livelli erano simili e con un aumento non significativo, ma tale risultato statistico è influenzato dalla differenza numerica dei due sottogruppi di confronto a favore dei vaccinati non infetti (35 vs 228) e dal breve periodo di osservazione (3 giorni dopo la 1 dose, 7-21 dopo la 1 e 7-21 giorni dopo la 2 dose nei Covid-Naïve).

    La maggior parte degli studi concorda che nei soggetti guariti non vi è stato alcun aumento significativo dell’immunità cellulare (Lozano-Ojalvo et al., 2021), degli anticorpi circolanti, dei titoli neutralizzanti o dei linfociti B di memoria antigene-specifici dopo la seconda dose. (Goel et al., 2021; Krammer et al., 2021; Hwang et al., 2022). Quando presente, tale incremento era caratterizzato dal rapido decadimento del titolo anticorpale (Puya-Dehgani-Morabaki et al., 2022) a fronte di una maggiore comparsa di eventi avversi. Anche nella revisione del gruppo di Shenai et al. (2021) si è osservato che la vaccinazione nei guariti dal COVID fornisce una protezione modesta dalla reinfezione (RR=1,82 [IC 95% 1,21-2,73], P=0,004) con una differenza di rischio assoluto estremamente marginale (AR=0,004 anni-persona [IC 95% 0,001- 0,007], P=0,02) mentre gli eventi avversi dopo l'iniezione del vaccino sono stati più frequenti dopo la seconda dose di vaccino (media: 0,95 vs 1,91) nei soggetti guariti rispetto ai Covid-naïve (media: 1,63 vs 2,35).

  1. È vero che ci sono studi che indicano che la vaccinazione nei guariti aumenta il titolo anticorpale, ma in alcuni casi questi studi sono stati effettuati solo in vitro, e non considerano quindi la clinica (si vedano ad esempio Ibarrondo et al., 2021; Hall et al., 2022; Yunkai Yu et al., 2022).

    Ci sono alcuni studi che EMA cita a proposito della somministrazione di due dosi vaccinali ai guariti (Hall et al., 2022; Goldberg et al., 2021; Zhong et al., 2021). Essi contengono diversi bias, come ad esempio la mancata o insufficiente esecuzione di test di verifica per pregressa infezione, e, di conseguenza, la rilevazione di successiva reinfezione. Per quanto riguarda le reinfezioni, non emergono dati clinici sui tassi di casi asintomatici e sintomatici, fondamentali per individuare la reale necessità clinica di vaccinare un individuo guarito. Infine, i gruppi non sono chiusi; i pazienti potevano essere trasferiti da uno all’altro a seconda dello stato vaccinale o di infezione. Pertanto, la precisione delle stime relative ai tempi di follow-up potrebbe essere stata compromessa.

    In ogni caso, anche questi studi indirettamente confermano che la protezione fornita da una precedente infezione è superiore, per durata ed efficacia, a quella artificiale acquisita tramite vaccinazione; inoltre, emerge che l’utilizzo di una o due dosi è irrilevante. Rispetto alla protezione offerta dalla vaccinazione, che diminuisce nel breve termine, mentre quella acquisita da una pregressa infezione rimane stabile fino a 15 mesi.

    Uno studio prospettico di coorte italiano (Ronchini et al., 2022) conclude asserendo che la probabilità di infezioni dopo vaccinazione è significativamente più bassa rispetto alle reinfezioni (dopo infezione naturale) che comunque “rimangono rare”. Effettuando un’attenta lettura dei dati, la differenza tra i casi di infezione nei vaccinati (1,48%) e i casi di reinfezione nei guariti (1,88%) non risulterebbe statisticamente significativa.

    Va inoltre rilevato che nello studio le reinfezioni vengono individuate come 2 campioni PCR positivi, intervallati da una PCR negativa, in uno stesso soggetto a distanza superiore a 60 giorni. Sia secondo del CDC che secondo l’ISS, per definizione la reinfezione deve avvenire almeno 90 giorni dopo la prima diagnosi; in alternativa, dev’essere presente un sequenziamento che dimostri la presenza di un ceppo virale differente dal precedente. La necessità di distanziare la diagnosi di reinfezione a causa della possibile persistenza virale per più di 90 giorni, viene sottolineata da diversi autori (si vedano ad esempio Sheehan et al., 2021; Hansen et al., 2021)

    Lo studio di coorte retrospettivo da poco pubblicato su The New England Journal of Medicine (Hammerman et Al. 2022) doveva valutare i tassi di reinfezione nei pazienti guariti confrontandoli con il gruppo di soggetti poi sottoposti a vaccinazione Covid-19. Anche in questo caso si registra un importante errore nel design dello studio. Infatti, la popolazione dei guariti è stata divisa in 2 gruppi (non vaccinati e vaccinati). Questa suddivisione era dinamica, cioè i partecipanti che venivano sottoposti a vaccinazione permanevano poi nel primo gruppo (non vaccinati) per i primi 7 giorni dalla somministrazione, adducendo come motivazione il tempo necessario perché il vaccino si rivelasse efficace. In realtà, la stessa Pfizer, negli studi per il Memorandum di revisione per l’Autorizzazione all'uso di emergenza del vaccino, ha osservato che proprio entro i primi 7 giorni dalla vaccinazione vi è un incremento del 43% delle infezioni. Pertanto, la permanenza di ulteriori 7 giorni nel gruppo non vaccinato dopo somministrazione vaccinale, nello studio di Hammerman, rende assolutamente invalide le conclusioni sul confronto delle reinfezioni nei due gruppi di popolazione.

    Questo incremento delle infezioni nei 7 giorni successivi all’inoculazione, sempre dai risultati degli studi Pfizer, potrebbe essere dovuto a una diminuzione transitoria dei linfociti osservata in tutte le età e in tutti i gruppi di dosaggio dopo la prima dose. Un’altra fonte di discussione, secondo gli stessi autori, risiede nel numero di test PCR significativamente più basso eseguito nel gruppo dei vaccinati rispetto alla coorte non vaccinata, poiché i vaccinati non venivano sistematicamente sottoposti al test, ma solamente in presenza di sintomi rilevanti. In questo modo venivano individuati i contagiati asintomatici solo nel gruppo dei non vaccinati.

    Un altro limite dello studio dichiarato dagli autori è costituito dal fatto che non sono stati valutati né i dati sulla gravità delle infezioni, né sull’ospedalizzazione e sulla morte.

  1. Abbiamo studiato anche l’efficacia dell’immunità naturale ed artificiale nei confronti di Omicron.La sequenza della variante SARS-CoV-2 Omicron (B.1.1.529), che ha 3 maggiori “sottovarianti” BA.1, BA.2, and BA (Yu et al., 2022), è stata annunciata per la prima volta il 24 Novembre 2021. Tale variante presenta oltre 30 mutazioni riguardanti la proteina Spike (Ledford, 2022), di cui 15 mutazioni sono proprio localizzate nel Dominio Legante del Recettore, cioè in uno dei principali obiettivi degli anticorpi neutralizzanti (Flemming, 2022). Indicazioni preliminari ritengono che la variante Omicron sia altamente contagiosa ma meno pericolosa delle precedenti (Kozloy et al., 2022; Bauer et al., 2022; Nyberg et al., 2022). Troviamo evidenza di una riduzione del rischio di ospedalizzazione per Omicron rispetto alle infezioni da variante Delta (Ferguson et al., 2021; Bauer et al., 2022; Nyberg et al., 2022). Interessante notare che il (basso) rischio di ricovero ospedaliero nei bambini di età inferiore a 10 anni invece non differisce significativamente tra variante Delta ed Omicron. Da quando la variante Omicron è diventata dominante (ISS, 18 febbraio 2022), si sono registrate più infezioni tra i bambini, ma di minore gravità. Lo studio (Wang et al., 2022), che ha coinvolto quasi 652.000 bambini di età inferiore a 5 anni negli USA, mostra rispetto a Delta importanti riduzioni di accessi al Pronto Soccorso, ricoveri (-34%), accessi in terapia intensiva (-65%, cioè solo un terzo degli accessi) e ricorso a respirazione assistita (-85%, cioè 6,7 volte meno), che costituivano comunque eventi rari. Questo studio mostra quali valutazioni siano più utili per stimare la gravità della malattia. I dati, anche tra i bambini, sono confortanti. Omicron causa una malattia più lieve, anche tra i bambini, mentre i soggetti di età compresa tra 60 e 69 anni presentano un rischio ridotto di ricovero ospedaliero di circa il 75% con Omicron rispetto a Delta (Nyberg et al., 2022). La ridotta severità di Omicron è confermata anche da un recentissimo studio italiano (Acuti Martellucci et al., 2022).

    Se confrontato con altre varianti, Omicron ha più difficoltà ad entrare nei tessuti polmonari e lo si trova più facilmente nelle vie aeree superiori: questo potrebbe spiegare la sua elevata trasmissibilità (Kozloy et al., 2022).

    È verosimile che parte di questa ridotta severità sia da attribuire alla protezione della precedente immunità: gli infettati con Omicron che hanno avuto in precedenza una infezione da variante Delta hanno una probabilità significativamente minore di malattia severa (62,5% vs 23,4%) (Wolter et al, 2022). Una pre-esistente immunità cellulare ed innata, con o senza anticorpi neutralizzanti è probabile continui a proteggere dalla malattia severa (Flemming, 2022).

    In particolare la protezione fornita dalle precedenti infezioni contro il ricovero o il decesso sembra solida, indipendentemente dalla variante presa in considerazione (Altarawneh et al., 2022). Una precedente infezione da SARS-CoV-2 documentata offre una certa protezione contro il ricovero e un'elevata protezione contro la morte negli individui non vaccinati (Nyberg et al., 2022).

    Inoltre, una precedente infezione protegge da reinfezione sintomatica con Alpha, Beta o Delta circa al 90%. Sebbene tale protezione contro la reinfezione da Omicron sia inferiore, è comunque considerevole a quasi il 60% (Altarawneh et al., 2022).

    Riguardo agli studi che coinvolgono pazienti vaccinati, i risultati sulla protezione dal contagio da Omicron sono attualmente contraddittori. Alcuni studi hanno analizzato i linfociti T prelevati da persone che hanno ricevuto un vaccino COVID-19 o sono stati infettati con una variante precedente ed hanno scoperto che questi linfociti T possono rispondere a Omicron. Infatti mentre l’immunità anticorpale è fragile e svanisce, i linfociti T, più resistenti, svolgono una varietà di funzioni immunitarie, tra cui agire come cellule "killer" che distruggono le cellule infette da virus e limitano la diffusione dell’infezione (Ledford, 2022). Queste cellule T CD4+ e CD8+ specifiche, indotte da una precedente infezione o dalla vaccinazione (Fohse et al., 2021) forniscono un'ampia copertura immunitaria contro la variante Omicron (Gao et al., 2022).

    Alcuni studi ritengono che l’immunità sia dei vaccinati che degli infettati mantenga la protezione nei confronti dalla malattia severa (Dejnirattisai et al., 2022).

    È descritto anche, sia nei pazienti vaccinati con 2 dosi che in pazienti infettati, un sostanziale grado di immunità naturale cross-reattiva tra le diverse varianti (Yu et al., 2022), da imputare, più che alla risposta anticorpale, alla robusta risposta T Cellulare CD4+ e CD8+ generata sia dalla vaccinazione che dalla infezione precedente (Keeton et al., 2022).

    Tuttavia è difficile distinguere la protezione fornita dell’immunità preesistente dalle proprietà intrinseche di minor pericolosità della variante Omicron. Infatti, in Sud Africa, più del 70% della popolazione delle regioni pesantemente colpite da Omicron hanno avuto infezione precedente ed è noto che oltre agli anticorpi, il sistema immunitario dei guariti e dei vaccinati schiera Cellule T, le quali riconoscono frammenti di proteine virali e distruggono le cellule infettate dal virus (Ledford, 2021).

    In altri studi emerge che la variante Omicron, avendo molte più mutazioni della proteina Spike rispetto alle varianti precedenti, può rifuggere dalle possibilità neutralizzanti sia del vaccino (Yu et al., 2022) che dell’immunità naturale derivante da infezioni con varianti precedenti. (Dejnirattisai et al., 2022). Infatti, l’efficacia vaccinale contro Omicron è dimostrata essere significativamente inferiore a quella contro l'infezione da Delta e diminuisce rapidamente in pochi mesi (Hansen et al., 2021). Non è neppure chiaro se il potenziamento con vaccini specifici per Omicron migliorerebbe l'immunità e la protezione (Gagne et al., 2022).

    Inoltre, a fronte di una protezione data dall’immunità naturale, si registra l’incapacità del vaccino di evitare il contagio da SARS-CoV-2. Questo, oltre ad essere un dato ormai clinicamente evidente è anche diffusamente descritto in letteratura. A tal punto che nel Gennaio 2022, in un Interim Statement dell’OMS, il Technical Advisory Group sulla Composizione dei Vaccini anti Covid (contestualmente a più dati sull’efficacia dei vaccini stessi contro l’ospedalizzazione, la malattia severa e la morte) ha richiesto lo sviluppo di vaccini diversi, con alto impatto sulla prevenzione dell’infezione e della trasmissione, che stimolino una risposta immunitaria ampia, forte e duratura per ridurre la necessità delle dosi booster (2022). Sono infatti descritti cluster di infezione da variante Omicron in individui che avevano completato il ciclo vaccinale primario ed effettuato la dose booster da almeno un mese con vaccini a mRNA (Kuhlmann et al., 2021). Tutti questi pazienti hanno presentato un decorso di Covid sintomatico con manifestazioni da lievi a moderate. Questa è un’ulteriore prova del fatto che tre dosi di vaccino a mRNA non prevengano l’infezione e la malattia sintomatica contro la variante Omicron (Kuhlmann et al, 2021). Inoltre, tra gli individui infettati, la carica virale di Omicron era simile tra gli adulti che avevano ricevuto 3 dosi e quelli che ne avevano ricevute 2: ciò suggerisce che la dose booster non influisca positivamente sulla carica virale di Omicron (Elliot et al., 2022).

    Concludendo, l’immunità naturale mitiga le già ridotte probabilità di infezioni da Omicron che richiedono il ricovero ospedaliero. Contemporaneamente, la vaccinazione pare che non protegga dal contagio con Omicron. Ci sono ancora dati contraddittori sulla percentuale di protezione dall’infezione e sull’efficacia vaccinale, che richiedono ulteriori studi. È chiaro che, dal punto di vista clinico, anche se può avvenire una reinfezione, i pazienti che avevano già contratto una variante precedente del SARS-CoV-2 sono protetti.

  1. Al tempo stesso, per valutare il rapporto rischi e benefici è necessario analizzare l’eventuale aumento dell’incidenza di effetti avversi nei guariti rispetto ai soggetti Covid-naive.

    Come si evince dalla letteratura già nota, alcuni antigeni, ad esempio quello della varicella, hanno la capacita di generare, attraverso diversi meccanismi (ne citiamo alcuni: cross-reactivity, induzione di autoanticorpi, lesioni tissutali autoindotte per attivazione dell’Interferon Gamma) una condizione di autoimmunità, dovuta alla loro capacità e di presentare l'antigene e di sovrastimolare cellule come le T CD4+ e/o CD8+ dell’ospite, mettendo a rischio l'integrità del sistema immunitario. Questa autoimmunità sistemica si verifica quando il sistema immunitario dell'ospite è sovrastimolato da fattori esterni, come l'esposizione ripetuta all'antigene, a livelli che superano la criticità auto-organizzata del sistema. Il lavoro di Levi et al. (2021) ha dimostrato che la riposta anticorpale dei pazienti che avevano avuto il COVID era abbondante e protettiva, ponendo pertanto un'allerta su eventuali altre dosi vaccinali che potrebbero quindi scatenare una reazione di iperstimolazione. Questa potrebbe portare ad un esaurimento della risposta immunitaria, rendendo il soggetto più suscettibile alle diverse infezioni. In alternativa, potrebbe causare la formazione di anticorpi a bassa affinità che si esplicherebbe in un fenomeno cosiddetto ADE - Antibody-Dependent Enhancement (in italiano potenziamento anticorpo-dipendente) quando nuovamente esposto a SARS-CoV-2. Sempre a supportare la possibilità di questo fenomeno, citiamo anche lo studio di Ankuda, MPH Bruce Leff et al. che parlano di un’associazione fra sintomi più clinicamente significativi dopo la prima dose di vaccino nei soggetti precedente esposti ad infezione da SARS-CoV-2. In altri studi si evince che la vaccinazione anti-COVID sui pazienti con pregressa infezione possa esacerbare la riposta sistemica al vaccino, come per esempio è scritto nel lavoro di Krammer et al. (2021) pubblicato sul New England Journal of Medicine che dimostra che gli individui sottoposti a vaccino con immunità preesistente da pregressa infezione COVID-19, avevano una frequenza e una gravità più elevata di reazioni sistemiche rispetto ad individui senza immunità da infezione COVID-19.

    Lo studio ha anche evidenziato che i titoli anticorpali dei vaccinati con immunità preesistente erano da 10 a 45 volte più alti di quelli dei vaccinati senza immunità preesistente negli stessi momenti dopo la prima dose di vaccino (ad es. 25 volte più alti da 13 a 16 giorni) e hanno anche superato la mediana titoli anticorpali misurati nei partecipanti senza immunità preesistente dopo la seconda dose di vaccino di oltre un fattore 6. Sebbene i titoli anticorpali dei vaccinati senza immunità preesistente siano aumentati di un fattore 3 dopo la seconda dose di vaccino, non è stato osservato alcun aumento dei titoli nei sopravvissuti al Covid-19 che hanno ricevuto la seconda dose di vaccino.

    Gli effetti collaterali locali si sono verificati con frequenza simile tra i partecipanti con immunità preesistente e tra quelli senza immunità preesistente, mentre i sintomi sistemici erano più comuni tra i partecipanti con immunità preesistente.

    Anche lo studio effettuato da Menni et al. (2021) pubblicato su Lancet ha dimostrato un aumento del rischio di sviluppo di reazioni sistemiche del 56% circa nei vaccinati guariti rispetto ai vaccinati Covid-naive. Il rischio di eventi avversi locali era invece maggiore del 20-40% rispetto ai Covid-naive.

    Joob et al. (2021) hanno stabilito tramite un modello matematico che i soggetti con COVID-19 sintomatico dopo vaccinazione presentano una viscosità ematica attesa più elevata rispetto a coloro che hanno avuto il COVID-19 asintomatico o non l’abbiano avuto affatto.

    In un altro lavoro, Zappa et al. (2021) non solo ribadiscono il concetto di una maggiore frequenza di reazioni sistemiche al vaccino nei soggetti precedentemente infetti da COVID-19 rispetto a coloro senza storia di infezione documentata, ma parlano nel dettaglio di un aumento della pressione arteriosa rispetto ai soggetti senza precedente esposizione a SARS-CoV-2. Questo avviene sia in soggetti con ipertensione già conclamata che in soggetti che non avevano mai riportato ipertensione arteriosa. Riportiamo inoltre il lavoro su Clinical Immunology che dice che gli eventi avversi locali e sistemici registrati sembravano essere dose-dipendenti, soprattutto nei partecipanti di età inferiore ai 55 anni. Presumibilmente dovuto alla maggiore reattogenicità che si verifica nelle persone più giovani che se da un lato può conferire una maggiore protezione verso gli antigeni virali, dall’altro può anche predisporre ad un maggiore carico di effetti collaterali immunologici. L'attivazione di diverse cascate pro-infiammatorie, tra cui l'assemblaggio di piattaforme di inflammasoma, la risposta all'interferone di tipo I (IFN) e la traslocazione nucleare dell’NF-kB che ne consegue, determina un up-regolazione di queste vie immunologiche che oggi è ampiamente considerata alla base di diverse malattie immuno-mediate, specialmente in soggetti geneticamente predisposti.

    Inoltre, è riportata una significativa associazione fra i pazienti che hanno contratto il virus SARS-CoV-2 e l’alta incidenza e severità di effetti indesiderati indotti dal vaccino. Citiamo perciò lo studio di Mathioudakis et al. (2021) secondo cui i pazienti affetti precedentemente da COVID-19 e poi vaccinati presentavano un aumento di incidenza di effetti indesiderati già dalla somministrazione della prima dose di vaccino, oltre che una maggiore gravità degli stessi rispetto ai pazienti Covid-naive. Sempre gli stessi hanno dimostrato che anche dopo la seconda dose di vaccino si aveva un aumento similare alla prima dose degli effetti collaterali e della loro severità.

    C’è anche il lavoro di Tré-Hardy et al. (2021) in cui si documenta che gli eventi avversi dopo la prima dose di vaccino a mRNA sono più gravi nei soggetti precedentemente affetti da COVID-19 che nei sieronegativi. Questi risultati sono coerenti con altri studi che sottolineano come i vaccini a mRNA possano causare eventi avversi nei soggetti che hanno contratto l’infezione di SARS-CoV-2. Altri studi analizzano invece la riposta immunitaria nei soggetti guariti da malattia post-vaccino. Si aggiunga, infine, che i pazienti che avevano contratto il COVID pre-vaccino, riportavano una scarsa riposta immunitaria alla seconda dose di vaccino.

  1. Concludendo, dall’analisi della letteratura si evince che:
    • La stragrande maggioranza degli individui affetti da SARS-CoV-2 con la guarigione sviluppa un’immunità naturale sia cellulo-mediata che umorale efficace nel tempo, che fornisce una protezione sia nei confronti della reinfezione che di un’eventuale malattia grave.
    • Sono stati riscontrati anticorpi protettivi e cellule B della memoria in molti follow-up da 12 mesi a 18 mesi dopo la guarigione, e la loro presenza può essere ancora più prolungata con l’allungamento dei tempi di osservazione. La ricerca svedese, con un follow-up dopo infezione naturale fino a 20 mesi, mostra una protezione del 95% dall’infezione e dell’87% dai ricoveri in chi non ha aggiunto vaccinazioni.
    • La risposta cellulare si attiva e permane anche quando quella anticorpale non è dosabile. È stata confermata nel tempo la presenza di linfociti T CD4+ e CD8+ nei soggetti convalescenti da SARS-CoV-2 fino a 18 mesi dopo l’infezione.
    • L’immunità artificiale decade più rapidamente rispetto all’immunità naturale, che è l’unica che si attiva anche per la cross-reattività.
    • La pregressa infezione da SARS-CoV-2 garantisce maggiore protezione rispetto a quella offerta dal vaccino a dose singola o doppia.
    • Il rischio di re-infezione è molto ridotto. Anche dopo oltre un anno dall’infezione primaria, nei non vaccinati è rimasta una protezione intorno al 70% (69% in una vasta coorte di operatori sanitari del Regno Unito - Hall et al., 2022), benché una successiva vaccinazione la alzi ulteriormente.
    • In caso di reinfezione, la carica virale è circa 10 volte inferiore a quella relativa ad un’infezione primaria.
    • La severità dei sintomi della reinfezione risulta nettamente inferiore rispetto alla infezione primaria, con un grado minore di ospedalizzazioni (0,06%) e quasi nessun decesso correlato.
    • La protezione dall’infezione conferita dal ciclo vaccinale è molto buona dopo i primi 14 giorni, declina però rapidamente nel corso dei mesi, azzerandosi o quasi dai 5 mesi dopo la seconda dose, fino persino a invertirsi, nel senso che i soggetti completamente vaccinati diventano addirittura meno protetti dall’infezione rispetto ai non vaccinati.
    • È improbabile che gli individui precedentemente infettati da SARS-CoV-2 traggano beneficio dalla vaccinazione COVID-19 (Shresrtha et al., 2021). Ai guariti da un'infezione naturale dovrebbe essere concesso almeno lo stesso status sociale di immunità da COVID-19 delle persone che sono state completamente vaccinate (De La Monte et al., 2021).
    • L’aumento di protezione dall’infezione conferito dalla vaccinazione dei guariti non va sopravvalutato: si tratta di un aumento relativo in apparenza grande, ma molto piccolo come aumento assoluto. Infatti, la maggior protezione si riferisce a un evento (reinfezione in chi ha già superato un’infezione) già di per sé non comune (Hammerman et al., 2022), ed è discutibile che valga la pena di vaccinare un guarito.
    • Le persone completamente vaccinate diffondono il SARS-CoV-2 con cariche virali simili agli individui non vaccinati quando si ammalano, per cui è nullo il beneficio epidemiologico.
    • I vaccini disponibili non hanno mostrato l’azione desiderata nel proteggere dall’infezione. I vaccinati con due dosi hanno già dimostrato di poter diventare nel corso dei mesi più suscettibili all’infezione rispetto ai non vaccinati. Non ci sono prove nel tempo che questo allarmante fenomeno non si verifichi anche con la terza dose, e segnali di declino della protezione relativa già si moltiplicano, senza che si possa escludere l’ipotesi di un indebolimento del sistema immunitario.
    • La malattia fornisce una riposta immunitaria importante e prolungata nel tempo e l’ulteriore somministrazione di dosi di vaccino, soprattutto dalla seconda in poi, non porta ad un miglioramento dell’immunità significativo, pertanto l’effetto protettivo di dosi successive, nei guariti, potrebbe essere discutibile e in certi casi rischioso.
    • Non esistono differenze statisticamente significative tra l’efficacia della risposta immune all’infezione naturale o a quella ibrida (vaccinazione + infezione naturale) dopo circa 20 mesi.
    • La variante Omicron è altamente contagiosa ma meno pericolosa delle precedenti; si è verificata una riduzione del rischio di ospedalizzazione per Omicron rispetto alle infezioni da variante Delta. In Inghilterra su oltre 1,5 milioni di casi (oltre un milione con Omicron e 450.000 con Delta) Omicron nei non vaccinati è risultata 5 volte meno letale di Delta nell’insieme delle fasce di età, e circa 10 volte meno nella mezza età.
    • Rispetto alle varianti precedenti, la Omicron ha diminuito in modo marcato l’efficacia protettiva sia di un’infezione pregressa, sia delle vaccinazioni. Comunque, chi ha superato l’infezione naturale è protetto da un’infezione da Omicron un po’ più di chi ha fatto due dosi di vaccino (la differenza, 61,9% rispetto a 55,9%, non è statisticamente significativa, ma è noto che la protezione da vaccinazione declina nei mesi assai più rapidamente di quella che segue a un’infezione naturale, oltre a non fornire la protezione delle mucose conferita dall’infezione naturale)
    • I vaccini a mRNA possono dare origine a una cascata di eventi immunitari che possono portare all'attivazione aberrante del sistema immunitario innato e acquisito nei soggetti con una storia antecedente di COVID-19 che li renderebbe più suscettibili alle infezioni in generale o ad ADE (Antibody-Dependent Enhancement).
    • La vaccinazione dei soggetti guariti andrebbe evitata, dal momento che, per chi ha superato un’infezione naturale, le reazioni avverse vaccinali sono regolarmente più intense (Menni et al., 2021) rispetto a quelle dei vaccinati senza previa infezione (Mathioudakis et al., 2021). Gli eventi avversi locali e sistemici registrati post vaccino sono maggiori rispettivamente del 40% e del 60% nei soggetti esposti con precedente storia di infezione da SARS-CoV-2 (Menni et al., 2021).

    Per tali motivi, andrebbe esclusa la vaccinazione dei guariti, che godono di immunità naturale più efficace e duratura rispetto a quella artificiale, come già noto per le altre patologie infettive.

    Come si evince da questa revisione di letteratura, salvo qualche articolo controcorrente, vaccinare i guariti non solo è inutile dal punto di vista clinico, ma per alcuni pazienti può essere anche più rischioso. Pertanto non ha alcun razionale l’indicazione della vaccinazione dei sanitari a 90 o 120 giorni dopo la guarigione. Dev’essere restituita al Medico la possibilità di adottare le decisioni cliniche che ritiene migliori per i suoi pazienti, considerandone l’unicità e la storia anamnestica.

    Auspichiamo che questa revisione di letteratura aiuti a far luce sugli aspetti considerati in modo rigoroso e scientifico.